ARTHUR MACHEN e il segreto delle Ninfe

Arthur Machen (Caerleon-on-Usk 1863- Beaconfield 1947) è un maestro del fantastico che in Italia non ha mai raggiunto una fama proporzionale alla sua importanza letteraria.

Howard Philips Lovecraft, ne scrisse: “Machen è un titano —forse il più grande autore vivenre — e io devo leggere ogni cosa sua” (lettera a Frank Belknap Long, 3 giugno 1923) e “Persino tra i più eminenti (autori), il vero tocco della paura sublime e delirante è terribilmente difficile da trovare. Arthur Machen è il solo maestro vivente, — nel pieno senso della parola — che io possa nominare in questo campo … un punto che io penso ciascuno possa riconoscere paragonando il suo episodio de “La polvere bianca” in “I tre impostori” con ogni altro racconto di terrore noto di questa generazione (lettera a J.C.Henneberger, il fondatore di Weird tale magazine, 2 febbraio1924). Infine: “Dei creatori viventi di terrore cosmico elevato al picco d’arte più alto, pochi se alcuno possono sperare di eguagliare il versatile Arthur Machen, autore di qualche dozzina di racconti lunghi e brevi, nei quali gli elementi di orrore celato e profondo terrore raggiungono un’essenza quasi incomparabile e realistica acutezza. Il signor Machen, è un uomo di lettere completo e un maestro di prosa squisitamente lirica ed espressiva”(Supernatural Horror in Literature. Arkham House )

Alcuni racconti di Machen sono stati editi in Italia ne Il Gran Dio Pan e altre storie soprannaturali in Oscar Mondadori, nel 1982, con scelte di traduzione discutibili. Dopo la bella edizione de La piramide di fuoco nella Biblioteca dell’Immaginario di Franco Maria Ricci, l’autore è stato trascurato dai grandi editori. Si può trovare solo grazie alle recenti pubblicazioni di piccoli editori come Theoria, Il Palindromo, Hypnos, molto valide dal punto di vista dell’apparato critico e della traduzione. L’anno scorso Hypnos ha pubblicato l’inedito Un frammento di vita e il capolavoro The White People, Il popolo bianco, cui dedico questo articolo.

Machen è un gallese nato a Caerleon, antica colonia romana e capitale di Re Artù. È un prosatore straordinario sia nei racconti ambientati nella labirintica Londra di inizio Novecento, come I Tre Impostori, sia nel far rivivere la ricchissima eredità mitica e l’inquietante paesaggio del Galles. Cedo ancora la parola a Lovecraft a questo soggetto: “Il signor Machen, con un’impressionante eredità celtica legata ai fervidi ricordi giovanili delle selvagge colline a cupola, foreste arcaiche e misteriose rovine romane della campagna del Gwent, ha sviluppato una vita creativa di rara bellezza, intensità e retroterra storico. Ha assorbito il mistero medievale dei boschi oscuri e degli antichi costumi, ed è un campione del medioevo in tutti gli aspetti, — inclusa la fede cattolica. Ha ceduto, non meno, all’incanto della vita romano-britanna che una volta dominò la sua regione natale; e trova strane magie nei campi fortificati, pavimenti a mosaico frammenti di statue e simili cosa che ci parlano del giorno in cui il classicismo regnava e il latino era la lingua del paese.(Supernatural Horror in Literature.).

L’opera di Machen può essere avvicinata a quella di Tolkien nel resuscitare gli antichi miti celtici. Ma mentre Tolkien, con gli occhi del letterato, dà valenza positiva ai “piccoli popoli”, Machen sa che questi erano visti con paura dagli antichi gallesi, così come gli Alvar nordici e gli Alp tedeschi e alpini erano ben più temibili degli Elfi di Tolkien. L’idea che il popolo di Faerie sia una maschera per un orrore arcaico indicibile è bene esposta nel racconto Il Sigillo nero.

Selvagge colline, arcaiche foreste, criptiche rovine romane fanno appunto da sfondo a The White People, secondo Lovecraft è l’opera in cui più ogni altra Machen ricrea la tradizione magica celtica. “In Machen, la storia più sottile—The White People— è indubbiamente la più grande, anche se non ha i terrori tangibili e visibili di The Great God Pan o The White Powder.” (lettera a Robert E. Howard, 4 Ottobre 1930). Il grande bibliografo e studioso dei letteratura fantastica E.F. Bleiler considerava questo racconto “probabilmente la migliore singola storia soprannaturale del secolo e forse della letteratura”, anche se l’elemento soprannaturale è fatto intuire, più che esplicitato e descritto.

«La stregoneria e la santità, ecco le sole realtà». È l’inizio del racconto, una lunga discussione tra un uomo pratico e razionalista (Cotgrave) e un mistico eccentrico (Ambrose), probabilmente portavoce di Machen. Questo prologo è stato bersaglio di critiche, sia di forma che di contenuto. Nella forma, si ritiene contrario a ogni buona regola di scrittura iniziare un racconto con un dialogo filosofico; nel contenuto, perché lo spiritualismo di Ambrose (nome non casuale: da Ambrosia, l’elisir dell’immortalità, come il Padre della Chiesa Ambrogio, ma anche come il mago Emrys Myrdinn, Merlino), e giudicato politicamente scorretto, irrazionale e misogino.

La tesi di Ambrose è che il vero peccato, come la vera santità, hanno poco a che fare con la nozione comune di bene e male, determinata dall’utile della società. La maggior parte degli uomini è debole, mossa dalle circostanze verso la criminalità o la rispettabilità. Il santo e il peccatore sono coloro che guardano oltre il velo dell’apparenza, l’uno per raggiungere sfere superiori con mezzi un tempo naturali, la contemplazione e l’estasi, l’altro con mezzi innaturali, la stregoneria. Il peccatore è non meno solitario del santo, e la sua via è ancora più ardua. Questo dialogo, da molti critici biasimato, è stato ammirato da Louis Pauwels e Jacques Bergier che vi hanno visto una spiegazione del male assoluto del nazismo. Perché l’adepto del male di Machen può non fare mai un atto violento (la strega bambina non fa nulla di più crudele di rompere dei piatti col pensiero, spaventando una cuoca), ma può anche compiere crudeltà mostruose come Gilles de Rais, che sacrificò, smembrò e violentò centinaia di bambini per trovare la pietra filosofale, o come, aggiunge Jacques Bergier, Hitler e Himmler che massacrarono milioni di persone per creare una razza di superuomini.

La scrittrice inglese Ruthanna Emrys accusa sia il prologo che il racconto di misoginia: “Parlando di simbolismo cristiano, i culti proibiti in Machen provengono direttamente dal Malleus Maleficarum. Per Machen, come per gli autori del Malleus, ciò che spaventa sono le donne, specialmente donne con una sessualità attiva”.

È vero che Ambrose paragona la sensibilità delle donne a quella dei fanciulli, persino degli animali, ma non nel senso di inferiorità intellettuale: nelle donne c’è più capacità di “insight”, visione interiore, mentre “nella maggior parte di noi le convenzioni, la civiltà e la cultura hanno resa cieca e sorda la ragione naturale”.

Ruthanna Emrys, prima di giudicare in modo così sbrigativo, dovrebbe ricordarsi che Ambrose è nome di mago, identico a Emrys. Machen è un cristiano, ma anche un occultista, membro dell’ordine esoterico della Golden Dawn con Arthur Conan Doyle, Algernon Blackwood e William Butler Yeats. Ogni scrittore esoterico non rivela interamente il suo pensiero, che va letto tra le righe: Machen dà più di un indizio che la sua opinione è ben lontana dal Malleus.

Egli ammette di tacere alcune realtà lontane dalla comune esperienza C’erano ottime ragioni per la sua reticenza. Siamo nell’Inghilterra che aveva appena processato e incarcerato Oscar Wilde. Il precedente romanzo di Arthur Machen, Il grande dio Pan, pubblicato appena un anno prima del processo a Wilde, era stato aggredito dai critici in modo violento: “troppo morboso per essere il prodotto di una mente sana” l’aveva definito il poeta Richard Henry Stoddard e lo scrittore e critico d’arte Harry Quilter aveva scritto “The Great God Pan è una storia del tutto abominevole, nella quale l’autore non ha risparmiato alcuno sforzo per indurre ripugnanza e orrore che descrive oltre il limite delle parole”, avvertendo che i libri di Machen dovevano essere considerati pericolosi per il pubblico e avrebbero distrutto sanità mentale e moralità dei lettori. La prudenza per Machen era d’obbligo.

Un esempio di pensiero celato sotto apparenza di banalità si ha quando Ambrose dice: “Quale sarebbe la sua reazione se il cane o il gatto di casa cominciasse a parlarle? … e se le rose in giardino si mettessero a cantare una fantastica canzone? Impazzirebbe. Lo stesso se i sassi in mezzo alla strada si gonfiassero sotto i suoi occhi e mettessero boccioli di pietra”.

Ci stupiamo: sarebbe questo il vero male per Machen? Ognuno di noi che abbia cani o gatti sa che provano sentimenti e li esprimono in un linguaggio loro. Se scoprissimo di poter conversare col nostro cane ne saremmo felici, come l’eroe del primo capitolo del bellissimo City di Clifford D. Simak.

I tre esempi non sono però banali se letti alla luce del pensiero medievale. Tre sono i regni della natura, minerale, vegetale e animale; e tre gli ordini di intelligenze, umane, angeliche (e diaboliche) e la suprema, divina. I sassi che si gonfiano di boccioli violano il confine dal regno minerale a quello vegetale; le rose che cantano da quello vegetale all’animale; il cane che parla tra l’animale e l’umano. Al di là di questo c’è l’uomo che vuol farsi angelo o diavolo, quindi l’assalto al cielo o la suprema estasi.

Date, sia pur velate, le indicazioni di lettura, Machen ci guida sul cammino iniziatico della sua protagonista, bambina e poi adolescente nella campagna gallese, con un padre “uomo di successo”, quindi superficiale e assente, e una balia erede di una stirpe di donne sagge nella tradizione magica celtica.

Cedo di nuovo la parola a Lovecraft in Supernatural horror in literature: “Meno famoso e meno complesso nella trama de The Great God Pan, ma nettamente superiore nell’atmosfera e nel valore artistico generale, è la curiosa e sottilmente inquietante narrazione intitolata The White People, la cui parte centrale si presenta come una ragazzina che la sua balia ha introdotto ad alcune magia e proibite… La narrativa del signopr Machen, un trionfo di abile scelta di parole e ritegno, accumula enorme potenza scorrendo in un fiume di bisbigli infantili”.

È lettura frequente che la balia perverta la bambina con riti osceni e forme depravazione (o a seconda dei punti di vista, liberazione) sessuale. Credo che questo, sia pur non del tutto assente, sia un effetto delle parole-specchio cui Machen, come Lovecraft capisce, ricorre per celare ai censori i suoi riferimenti a realtà più remote dall’esperienza corrente e più inquietanti.

Estasi e orrore restano coperti, non vi è un’epifania di terrore come nel Grande dio Pan o ne La polvere bianca di Machen stesso o nei racconti di Lovecraft. Fisicamente, non vediamo altro che selvagge colline, boschi scuri, sentieri segreti, fonti limpide e cerchi di pietra, e statue romane seminascoste, oggetto di antichi culti. Potremmo essere tentati, come il razionalista Cotgrave, di attribuire a “suggestione” la danza ipnotica delle pietre, la presenza di ninfe nelle acque, i paesaggi e linguaggi alieni che la narratrice apprende sin da bambina, le lettere Aklo, il linguaggio Chian, gli Xu e i Dols. Ma Ambrose è categorico; anche se la fanciulla rende vividi i paesaggi con immaginazione da artista (e quasi mai nella letteratura il paesaggio è stato descritto in modo più suggestivo) è un altro ordine di realtà che ella distingue dietro le apparenze e a cui si riferisce con i termini “ninfe” e “dols”. In altre parole ha la vista del mago, la stessa con cui Ged ne Il Mago di Earthsea di Ursula Le Guin distingue tra le rozze pietre grige di impiantitola la sola che ha in sé un’antica Potenza della Terra. Circondata dalla minacciosa danza delle pietre in cui intuisce potenze irate, la narratrice canta canzoni che le suonano nella testa e non possono essere scritte, imita la loro danza e passa incolume tra di esse. Scende in una profonda, orrida forra che rammenta una terribile leggenda celtica, ma esce salva compiendo gesti rituali e sussurrando antiche parole del linguaggio delle fate.

E qui vediamo che il giudizio di Machen è più sfumato di quanto voglia apparire dal moralismo di Ambrose: le canzoni e gli scongiuri tradizionali che la Balia insegna servono anche a guardare la bambina dai pericoli dell’esplorazione di vie sconosciute della realtà e a cacciare il male.

Alla fine del viaggio nella natura pervasa di horror sacri, senso di presenza immanente di divinità o demoni, la fanciulla è guidata da un misterioso piccolo animale a un bosco troppo segreto per essere descritto e trova “the most wonderful sight I have ever seen” Quale sia questa visione strana, meravigliosa e bella, non ci è dato di sapere.

Dopo notti di dubbi e paure la narratrice modella un piccolo uomo d’argilla e quando lo finisce “feci ogni cosa che potei immaginare”, frase spesso letta come un atto di autoerotismo; io non lo credo. Penso che Machen usi volutamente parole fuorvianti per il lettore superficiale; l’insistenza sul carattere “meraviglioso e splendido” anche se “terribile” del rito esclude un’esperienza autoerotica, non c’è traccia della sazietà e sottile disgusto che questa comporta. La fabbricazione di un homunculus d’argilla in alchimia significa rigenerazione da uno stato inerte a nuova vita.

É a questo punto che la fanciulla comprende che la Balia era un profeta, e ogni storia e visione era verità, e ripete il viaggio nei boschi segreti, bendandosi gli occhi per ritrovare la via solo con la seconda vista, ed evoca le Ninfe, le oscure e le bianche, senza le quali “nulla può accadere”. La ninfa oscura, Alanna, tramuta la polla d’acqua in fuoco e il racconto finisce.

Ambrose ci dice con sbrigativa freddezza che la narratrice si è avvelenata a sedici anni. Se sia stata follia, terrore o scelta determinata di andare incontro a un altro livello di esistenza, come accennato nel diario, non sappiamo. Il segreto delle Ninfe ci è negato.

Tutto il racconto è inframezzato, come nelle Mille e una Notte, da storie desunte dal folklore, narrate con mano di artista e precisione di etnologo, così come la descrizione dei riti arcaici della gente delle colline.

Due mi paiono le più significative. Lady Avelin, per la sua nobiltà e bellezza è chiesta in sposa da tutti i cavalieri del paese. Ma è la regina di “coloro che danzano sulle colline”,compie riti con i serpenti, che al suo comando la avvolgono (come nell’accoppiamento, quindi un rito nuziale con le forze ctonie), lasciandole sul petto la pietra dell’incantesimo, simile a un uovo di serpente. Lady Avelin rimanda le nozze e uccide con la magia i pretendenti muoiono uno a uno, sinché uno di essi riesce a spiarla travestito da damigella e scopre che il suo vero amante è un idolo di cera che si anima di notte. La denuncia e Lady Avelin muore sul rogo.

Nell’altro racconto un giovane cacciatore scorge al tramonto un cervo bianco (simbolo di amore e purezza) e lo insegue. Dopo una notte di caccia penetra sotto una collina, ed entra nel Regno delle Fate. Il cervo è la Regina delle Fate, gli dà da bere vino incantato e diviene sua moglie, per un giorno e una notte. Poi il giovane si risveglia dove aveva visto il cervo la prima volta, nello stesso tramonto. “Visse ancora a lungo, non avrebbe baciato alcuna altra donna, perché aveva baciato la Regina delle Fate, né avrebbe bevuto vino comune, perché aveva bevuto il vino incantato”.

Due storie in cui una donna-regina e la sua magia sconvolgono la vita degli uomini, ma in uno essa è negativa e portatrice di morte,nell’altro positiva e donatrice di rapimento estatico.

Il pensiero di Machen alla fine è assai più sfumato di quanto espresso all’inizio. Le potenti medicine possono essere veleni per chi si avvicini impreparato, ma elisir per colui che con pazienza ha forgiato la propria chiave d’ingresso nel mondo delle fate. In ogni caso l’incontro con altri ordini di realtà trasforma le persone e in definitiva è meglio che i materialisti come Cotgrave rimangano della propria opinione.

Giorgio Smojver